Le terapie della terza onda si caratterizzano per essere la naturale evoluzione delle terapie che sino ad oggi hanno accumulato una maggiore evidenza di efficacia.
Piuttosto che focalizzarsi sul modificare direttamente gli eventi psicologici, questi interventi mirano a modificare la funzione di questi stessi eventi psicologici e la relazione dell’individuo con questi. Questi trattamenti sono finalizzati alla costruzione di repertori ampi, flessibili ed efficaci per il fronteggiamento della situazione più che all’eliminazione di problemi accuratamente definiti. La relazione terapeuta-paziente e l’esperienza (comportamentale, emotiva e cognitiva) all’interno della sessione diventa il principale strumento di cambiamento. Per far questo si utilizzano strategie di cambiamento contestuali ed esperienziali in aggiunta a quelle più dirette o didattiche: mindfulness, accettazione, defusione cognitiva.
Alcune fra le recenti forme di terapie della terza onda sono:
La Acceptance and Commitment Therapy (ACT)
L’ACT è una nuova forma di psicoterapia, con solide basi scientifiche (Hayes, 2004). Si basa sugli assunti fondamentali che la sofferenza psicologica è normale, è importante ed accompagna ogni persona, il dolore e la sofferenza sono due differenti stati dell’essere, non è possibile sbarazzarsi volontariamente di esse, anche se si possono prendere provvedimenti per evitare d’incrementarle artificialmente. L’evitamento esperienziale di qualunque forma di sofferenza o dolore, così come i tentativi di controllo del pensiero non solo sono dannosi, ma mantengono il disturbo nel tempo. L’obiettivo dell’ACT è quello di incrementare la flessibilità psicologica attraverso fondamentali dimensioni:
- Accettazione: non si tratta di una forma passiva di accettazione ma di un vitale ed attivo atteggiamento di apertura nei confronti di qualunque evento interno così come si presenta nel momento presente, senza giudizio e resistenza;
- Defusione: l’ACT invita al riconoscimento dei propri pensieri come eventi privati transitori, in modo tale che non abbiano più lo stesso impatto;
- Valori: le prime fasi della terapia ACT si caratterizzano per ricercare quelli che sono i valori personali nei diversi domini della vita: nella famiglia, nelle relazioni intime, nella salute, nel lavoro, nella spiritualità e così via; solo partendo dal contesto valoriale l’azione, l’accettazione, la defusione si integrano tra di loro in una proposta efficace;
- L’impegno nell’azione: l’ACT invita a uscire dalla propria mente ed entrare nella propria vita intraprendendo azioni impegnate nella direzione di quelli che sono i propri valori ed i propri obiettivi;
- Contatto con il momento presente: invece di indugiare sul passato o preoccuparsi per il futuro l’ACT invita a vivere con maggiore consapevolezza ciò che accade istante per istante;
- Sé come contesto: sé come punto di vista ed osservatore dell’esperienza indipendentemente dalle molteplici esperienze di vita trascorse.
La La terapia Dialettico-Comportamentale (DBT)
La Terapia Dialettico Comportamentale (DBT, Linehan, 1993) è un approccio sistemico cognitivo-comportamentale, implementato prevalentemente per l’intervento con pazienti con disturbo borderline di personalità, specialmente per quelli con comportamenti suicidari cronici e altre disfunzioni gravi del comportamento. La DBT è ad oggi l’unico trattamento psicosociale che abbia dimostrato la propria efficacia nei confronti dei pazienti borderline. Incorpora al suo interno strategie di mindfulness per la riduzione dei comportamenti auto lesivi e parasuicidari, e strategie per l’accettazione e la validazione, legate da strategie dialettiche e assunti fondamentali. Nella DBT, le abilità apprese tramite mindfulness rappresentano la base del successo in tre aree fondamentali, frequentemente compromesse nelle personalità borderline: efficacia interpersonale, regolazione delle emozioni e tolleranza allo stress.
Tutte le terapie dialettico-comportamentali si basano su due componenti:
- Una modalità terapeutica individuale. Terapeuta e paziente discutono questioni sorte durante la settimana, riportate su un apposito diario, e seguono una gerarchia di obiettivi comportamentali;
- Una modalità di gruppo. Generalmente il gruppo si riunisce una volta alla settimana per circa due ore o due ore e mezza. Attraverso questi incontri, si imparano ad utilizzare abilità specifiche suddivise in quattro moduli: abilità chiave della consapevolezza, abilità per l’efficacia interpersonale, abilità per la regolazione emotiva e abilità per la tolleranza dello stress.
La Terapia Metacognitivo-Interpersonale (TMI)
La TMI è un modello di psicoterapia sviluppato a Roma nella seconda metà degli anni ’90 presso il il Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva. Questo trattamento è nato all’interno di un programma di ricerca condotto principalmente su pazienti con Disturbi di Personalità e Schizofrenia. Si è sviluppato come supporto ed integrazione delle tradizionali tecniche di terapia cognitiva standard in seguito all’osservazione delle difficoltà di alcuni pazienti ad identificare correttamente i pensieri e le emozioni che provavano in seguito ad un evento.
La TMI scompone i disturbi di personalità in aree e processi di funzionamento mentale ed interviene su di essi e sui loro circuiti di rinforzo. Gli elementi in questione sono: stati mentali problematici, deficit metacognitivi, schemi e cicli interpersonali disfunzionali, deficit nei processi di valutazione e di scelta e difficoltà nella regolazione dell’autostima.
L’obiettivo della TMI è sostanzialmente quello di incrementare il funzionamento meta-cognitivo nel paziente, ovvero aumentare la capacità di riconoscimento e padroneggiamento degli stati mentali problematici e migliorare le relazioni interpersonali. Un prerequisito fondamentale per il raggiungimento di tali obiettivi è la costruzione di una buona alleanza tra paziente e terapeuta. Attualmente questo tipo di terapia è stato manualizzato per i seguenti disturbi di personalità: Disturbo Borderline di Personalità, Disturbo Narcisistico di Personalità, Disturbo Paranoide di Personalità, Disturbo Dipendente di Personalità e Disturbo Evitante di Personalità. È in corso di sviluppo il modello di trattamento per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità.
- Stati mentali problematici
Ogni disturbo di personalità presenta degli stati mentali problematici prevalenti ossia pensieri, emozioni e sensazioni fisiche disfunzionali, che rimangono stabili nel tempo ed al mutare dei contesti.
- Deficit metacognitivi
La TMI definisce la metacognizione come l’insieme delle abilità dell’individuo di attribuire e riconoscere la presenza di stati mentali (es. emozioni, pensieri, desideri, bisogni, intenzioni) in se stesso e negli altri, di riflettere e ragionare su di essi e di utilizzare tali conoscenze per prendere decisioni, risolvere problemi interpersonali, padroneggiare la sofferenza soggettiva e negoziare efficacemente i propri desideri e scopi con gli altri.
Le abilità metacognitive possono essere suddivise in tre aree: abilità metacognitive che consentono di riflettere e ragionare su se stessi (Autoriflessività), abilità metacognitive che permettono di riflettere e ragionare sugli stati interni ed il comportamento delle altre persone (Comprensione della Mente Altrui – CMA) e abilità metacognitive che consentono di gestire gli stati mentali problematici (Funzioni di Mastery). In alcuni soggetti la capacità metacognitiva può risultare compromessa, in maniera stabile o transitoria; in questo caso si parla di disfunzioni metacognitive.
Il profilo di malfunzionamento metacognitivo, quindi, varia da persona a persona ed è strettamente associato alla gravità del disturbo psicologico presentato dal soggetto.
- Schemi e cicli interpersonali disfunzionali
Le persone con disturbi di personalità mettono in atto specifiche dinamiche relazionali disfunzionali quando si approcciano agli altri. A partire da convinzioni negative, rigide o severe su cosa aspettarsi dagli altri, possono assumere comportamenti che a loro volta generano negli altri le stesse reazioni emotive e comportamentali che si aspettano, perpetuando circuiti relazionali disfunzionali. Esistono cicli interpersonali tipici per ogni disturbo di personalità, che attivandosi ripetutamente possono stabilizzare la sofferenza, anche perché spesso non sono riconosciuti come un problema da parte dell’individuo. Ad es. un soggetto con un Disturbo Borderline di Personalità può aspettarsi, in modo più o meno consapevole, che le persone lo tratteranno con indifferenza e trascuratezza. Tale sensazione si può attivare in un momento in cui questa persona si sente sola. Questa modalità di pensare può portare il soggetto ad assumere atteggiamenti tali da provocare negli altri proprio l’indifferenza temuta rinforzando la sensazione di solitudine che perpetuerà il ciclo interpersonale disfunzionale con l’altra persona.
- Deficit nei processi di scelta e di valutazione
I soggetti che presentano delle difficoltà nell’identificazione e nell’integrazione dei propri stati interni possono sviluppare dei problemi nella valutazione e nella regolazione delle scelte ed utilizzare delle procedure decisionali di compensazione che risultano disfunzionali. Per esempio, le persone che soffrono di Disturbo Dipendente di Personalità hanno difficoltà nell’individuare i propri scopi e desideri e, di conseguenza, nel processo di decisione usano il contesto esterno (consigli e desideri degli altri) piuttosto che ascoltare i loro desideri e bisogni. Ne conseguono diverse implicazioni di tipo emotivo e relazionale, tra cui richieste di consigli e rassicurazioni eccessive, senso di costrizione, ribellione per le scelte fatte e una più generale mancanza di autonomia.
- Difficoltà nella regolazione dell’autostima
Alcuni disturbi di personalità sono caratterizzati da difficoltà nella regolazione dell’autostima. Ad esempio, i pazienti con Disturbo Narcisistico di Personalità, hanno la costante necessità di monitorare l’immagine di sé e la percezione del proprio valore personale al fine di preservare un’idea grandiosa di loro stessi. Per far questo, mettono in atto continue strategie di salvaguardia della propria autostima (la tendenza a sovrastimare le proprie capacità e le proprie performance, la ricerca della sensazione di essere vincente nella competizione con gli altri, la costruzione di standard sempre più elevati per superare continuamente se stesso, la tendenza alla svalutazione dell’altro) che a lungo andare possono compromettere gravemente i rapporti interpersonali e provocare l’isolamento relazionale.
La Psicoterapia basata sulla Mindfulness (MBSR e MBCT)
La mindfulness sia nella sua forma classica (MBSR; Mindfulness Based Stress Reduction di Kabat-Zinn, 1990) che nella più recente MBCT (Minfulness Based Cognitive Therapy di Segal, Williams e Teasdale, 2002) prevede l’utilizzo di sessioni di meditazione quale nucleo imprescindibile della terapia. La MBCT mantiene il formato del manuale di Kabat-Zinn e aggiunge un lavoro specifico sulla sfera cognitiva che si incentra sul processo stesso di pensiero più che sul suo contenuto.
Recenti ricerche nella psicologia occidentale, hanno provato che praticare la mindfulness può avere benefici psicologici importanti (Hayes, Follette, & Linehan, 2004).
Attraverso tali tecniche la persona impara:
- ad ascoltare e osservare le proprie emozioni, le proprie sensazioni fisiche e i propri pensieri nel momento stesso in cui sorgono, accettandoli per quelli che sono, senza giudicarli, senza cercare di modificarli, né bloccarli;
- ad affrontare le difficoltà per gradi, con delicatezza, attraverso l’aiuto degli istruttori e degli altri partecipanti;
- ad essere più cosciente dell’interazione mente/corpo;
- a mantenere un equilibrio interiore;
- ad aumentare la consapevolezza metacognitiva per ridurre la ripetitività automatica della ruminazione depressiva favorendo una differenziazione dalla realtà
Riuscire a prestare attenzione alle proprie esperienze interne nel qui ed ora promuove un aumento della consapevolezza e ciò produce e rinforza risposte comportamentali più flessibili, efficaci e guidate dagli scopi personali. In altre parole, il nucleo della MBCT consiste nell’imparare che “i pensieri non sono fatti” e che possiamo permetterci di lasciarli andare e venire, piuttosto che metterli in discussione e cercare di eliminarli, come nella terapia cognitivo-comportamentale classica.
La Psicoterapia Analitico-Funzionale (FAP)
La FAP di Kohlenberg & Tsai (1991) è basata sull’ analisi comportamentale della relazione terapeutica. Si pone attenzione alla relazione terapeuta – paziente nel contesto clinico, in cui, come in qualsiasi altro contesto, i comportamenti sono condizionati da regole di rinforzo.
La FAP è stata creata per essere utilizzata insieme agli approcci comportamentali tradizionali o quando l’abilità del cliente di relazionarsi agli altri è al centro delle difficoltà cliniche. Assunzione di base della FAP è che molta della psicopatologia e della sofferenza umana sia di natura interpersonale, e la relazione terapeutica sia essenziale nel portare a miglioramenti clinici. La tradizione cognitivo-comportamentale ha sempre dato peso all’importanza della relazione terapeuta-cliente, la FAP ne fornisce un’analisi fondata sui principi del comportamento e specifica i comportamenti del terapeuta necessari a favorire il cambiamento nel cliente. Il cambiamento clinico nella FAP è realizzato attraverso la risposta contingente da parte del terapeuta ai problemi del paziente, in vivo, ovvero mentre si manifestano durante la sessione terapeutica. La FAP presuppone che a partire dalle risposte contingenti del terapeuta ai problemi del cliente che si manifestano in sessione è possibile costruire o modellare (shaping) comportamenti nuovi e più funzionali.